Olivetti l’anti-manager

Olivetti l’anti-manager

Non si parla mai abbastanza di Adriano Olivetti, l’imprenditore illuminato, che ha anticipato di almeno 30 anni l’avvento dell’homo novus del capitalismo moderno.

A 35 anni dalla sua scomparsa, vi propongo un articolo che ci ricorda il suo modo di vedere l’impresa e i collaboratori. Magari un’occasione per andare a rivedere la sua opera.

Olivetti l’anti-manager

Franco Ferrarotti

Sono l’unico sopravvissuto, l’unico superstite e superteste, dei tre stretti collaboratori di Adriano Olivetti. Il critico letterario Geno Pampaloni e il giornalista e scrittore Renzo Zorzi, vicino ai socialisti, purtroppo sono morti. Quindi, non posso tacere. (…) L’imprenditore non è un amministratore. L’amministratore amministra l’esistente. Gestisce. Calcola le entrate e le uscite. Imposta i bilanci preventivi e analizza i bilanci consuntivi. Meticoloso, puntuale, occhiuto. Deve essere onesto e solo in Paesi tecnicamente arretrati e moralmente discutibili si depenalizza il falso in bilancio. In Paesi mediamente civili si va in galera. L’amministratore è un gestore. L’imprenditore è un sovversivo. Non accetta l’esistente come dato di fatto. La sua azienda deve essere processiva e propulsiva, senza confondere espansione caotica e priva di disegno con lo sviluppo ordinato e omogeneo, rispettoso degli equilibri ecosistemici e dei ritmi vitali della comunità. Olivetti era un imprenditore. Trasformò la piccola fabbrica paterna di mattoni rossi, in via Jervis a Ivrea – la prima in Italia a produrre macchine da scrivere –, in una grande azienda multinazionale su scala planetaria. Ma nulla in lui aveva a che vedere con la rapacità del tycoon di oggi. E questo per almeno due aspetti essenziali. Olivetti rifiutava e denunciava polemicamente il principio della a-territorialità su cui si fondano le iniziative, spesso piratesche, delle multinazionali, le quali negano in tal modo ogni responsabilità etica verso la comunità d’origine. Inoltre, egli considerava il profitto un indice indubbiamente importante della razionalità della gestione, produttiva e distributiva, la quale però non andava concepita come obiettivo da conseguirsi nel più breve tempo possibile, bensì tenendo presenti le caratteristiche umane e dell’ambiente. In altri termini, industrializzare senza disumanizzare.

Come logica conseguenza, una duplice azione di grande incisività: 1) sul piano della fabbrica, massima produttività per uomo-ora e in termini di volume produttivo globale, ma non a spese dell’integrità umana operaia. La Olivetti è fra le prime fabbriche al mondo a rinunciare al sistema di cottimo Bédaux, il sistema di misurazione dei tempi di lavoro basato sulla velocità del lavorato, tendente a mettere competitivamente un operaio contro l’altro; a modificare la catena di montaggio, ripetitiva, con i suoi effetti negativi sul lavoratore; a modificare la pratica dell’Ufficio Tempi e Metodi, in modo da non considerare le pause e i movimenti di singoli operai che non fossero previsti dal protocollo produttivo come tempi passivi o tempi morti. Alla domanda degli ingegneri: «Ma perché non addestrare gli operai mentre lavorano, realizzando così notevoli risparmi?», la risposta di Olivetti, da me personalmente in più di un caso udita e registrata, era sempre la stessa: «Gli animali si addestrano. Le persone si educano». 2) La fabbrica non vive nel vuoto sociale. La fabbrica è parte, vive e si sviluppa insieme con la comunità. Di qui il nesso, esistenziale e produttivo, fra fabbrica e comunità. La cosa non è stata capita dai politici e dai sindacalisti tradizionali. Sta di fatto che, per gli aspetti positivi, Olivetti precede di almeno trent’anni l’avvento dell’homo novus del capitalismo moderno, il Chief Executive Officer (Ceo). Questa figura nasce sulle ceneri del vecchio fondatore e dei nuovi manager di professione, specializzati nella gestione ordinaria ma del tutto inetti quando si tratta di affrontare situazioni eccezionali. La società per azioni moderna, d’altro canto, la corporation, vive e si sviluppa affrontando le sfide. Cresce nell’innovazione. Si affloscia, deperisce ed eventualmente muore nella routine. O cade vittima del cannibalismo industriale, di una scalata ostile. Il Ceo oggi rappresenta il nuovo potere basato sulla conoscenza degli arcani del potere; è legato all’alta finanza, apolide, piratesca, tesa alla massimizzazione del profitto nel più breve tempo possibile. Il Ceo è il beneficiario del risveglio del potere capitalistico. È il nuovo protagonista della gestione creativa del capitale, al di là delle frontiere nazionali. Non ha patria. È cittadino del mondo. Ubi bene ibi patria. Rovescia il Manifesto di Marx: «Capitalisti di tutto il mondo unitevi».

Il Ceo è il regista nella cabina di comando. È l’homo novus del potere globale. Ma il Ceo non legge. O legge poco. Non ha tempo. Pianifica. Non sa. Intuisce. Decide. Nessuna esitazione fra pensiero e decisione. Semplicità. Tensione verso lo scopo. Olivetti vede per tempo e con chiarezza i pericoli della speculazione finanziaria, che è alla fonte dell’attuale crisi economica planetaria. Ma l’uomo che aveva creato una multinazionale presente in tutto il mondo e al contempo radicata nella «comunità naturale» del Canavese; che aveva intuito il nesso vitale fra industria e cultura, tanto da considerare le biblioteche dei centri comunitari parte integrante del salario operaio, non poté impedire che gli avvoltoi scendessero rapidissimi sul cadavere ancora caldo e che cominciasse lo smembramento della sua ditta. Dopo il geniale «utopista tecnicamente provveduto» arriva chi spezzetta il complesso industriale e comincia a venderlo sul mercato, pezzo per pezzo, ai migliori acquirenti.

Articolo da Avvenire.it

Per saperne di più visita Fondazione Adriano Olivetti

Carla Benedetti

Ho intrapreso gli studi e la professione di coach dopo quindici anni di attività nel management, nelle Risorse Umane e nella gestione di piccole imprese in Italia e all’estero. Credo fermamente che ogni singolo individuo possa dare il suo contributo a quel cambiamento culturale che renderà il mondo migliore.

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